Era il lontano 1993 quando un ragazzo appena diciottenne fece una sensazionale scoperta nel cuore dei monti del territorio dell’Aspromonte. Filippo Sorgonà, questo il nome del giovane reggino scopritore, amava effettuare lunghe passeggiate tra i monti di Ortì Superiore, suo paese di nascita. Accade dunque che, dopo un violento temporale, nelle sue escursioni montane, il Sorgonà si imbatte in quella che è stata annoverata come una scoperta a dir poco eccezionale.
Lungo il cammino che egli era solito percorrere alle pendici di Montechiarello, si imbattè in un qualcosa che subito attirò la sua attenzione. Tra la sabbia, divenuta melma per l’acqua assorbita, dei grossi “pezzi” di un qualcosa che spuntava fuori dal terreno richiamarono lo sguardo di Filippo.
L’intuito e la capacità di aver saputo distinguere da subito che si trattava di qualcosa inusuale del vivere quotidiano diedero ragione al giovane.
Il sospetto divenne certezza quando, a dare conferma che ciò che aveva scoperto rappresentava un evento di rara ripetibilità, intervenne in suo supporto il professore Renato Crucitti, suo docente all’epoca dei fatti, geografo e naturalista che si complimentò con il “suo” studente per l’eccezionale scoperta.
Ortì, che si rivela essere come sito molto interessante dal punto di vista paleontologico grazie ai suoi numerosi ritrovamenti di fossili, in quel periodo si popolò di persone esperte.
Dapprima furono richiamati sul posto professionisti reggini e, di seguito, della vicina Sicilia tra cui la professoressa Cinzia Marra (all’epoca ancora studentessa universitaria), tra paleontologi e geologi dell’Università di Messina che con un lavoro attento riuscirono a portare alla luce e successivamente al suo recupero, grazie anche all’operato di esperti provenienti dagli scavi di Locri messi a disposizione dalla Sovrintendenza archeologica di Reggio, quanto la terra aveva conservato per circa tre milioni e mezzo di anni dal periodo del pliocene medio-superiore.
Un reperto dall’alto valore scientifico che attesta come la presenza di fossili sulle pareti dei monti aspromontani è certamente qualcosa di tangibile.
Dal ritrovamento avvenuto circa ventisette anni addietro ad oggi tanti sono stati gli incontri per discutere e capire come si è arrivati a questa fantastica scoperta che, grazie al professore Crucitti e al suo rinvenitore, continua a destare grande interesse e stupore tra la gente.
Di recente, una conferenza tenutasi presso la sala conferenze “Filippo Zema” della Lega Navale sezione Reggio Calabria sud in località Pellaro, ha nuovamente ravvivato l’attenzione sull’argomento.
Al tavolo dei relatori lo scopritore Filippo Sorgonà, il Presidente della Lega Navale ospitante Francesco Attisani nelle vesti di moderatore e l’esperto Renato Crucitti che ha deliziato la platea intervenuta attraverso le sue delucidazioni sull’avvenimento.
Dopo una bellissima ricostruzione emotiva di quanto accaduto il giorno del ritrovamento ad opera del Sorgonà, ha fatto seguito una dettagliata presentazione del professore Crucitti su quanto scoperto.
La presentazione dei luoghi in cui è avvenuta la scoperta (nella zona sono stati rinvenuti anche altri fossili come alcuni denti di selaci delle famiglie degli Esanchidi, Isuridi, Carcarinidi), le vicissitudini del ritrovamento e una attenta quanto esauriente spiegazione del naturalista sulla morfologia della struttura ossea (carattere spugnoso, dimensioni) hanno fatto propendere che potesse trattarsi di un cetaceo.
Ben dodici erano i metri in cui si presentava in lunghezza il fossile che presentava le vertebre suddivise nel numero di 22 per quelle codali, 15 lombari, 15 dorsali, 7 cervicali.
Il lavoro degli esperti si presentò alquanto difficile in quanto molti resti apparivano visibilmente danneggiati in alcune parti dal passaggio di ruspe o trattori intervenuti in quel luogo probabilmente per modificare le strade.
I sopralluoghi effettuati sul posto servirono oltretutto ad analizzare e dunque risalire alla composizione della sabbia, di colore grigio-bruno con una finissima granulometria, nonché del terreno e ricreare un ipotetico scenario di come era il luogo che appariva, presumibilmente, come una paleospiaggia, un’ampio e lungo tratto di litorale con caratteri simili a quelle delle coste dell’Oceano Atlantico o Pacifico con un lento e progressivo aumentare del fondale verso gli abissi.
Il Crucitti nella sua affascinante e coinvolgente illustrazione ha parlato della classificazione che suddivide l’ordine dei Cetacei in altrettanti sottordini di appartenenza.
I resti della balena (corpi vertebrali, segmenti della colonna vertebrale, parti dello scheletro facciale) indicano dunque l’appartenenza presumibilmente ad una balenottera appartenente al sottordine dei Misticeti dal peso stimato intorno alle venti tonnellate.
I reperti sono tutt’oggi ben custoditi presso l’Università di Messina ma in tanti si aspettano di rivederli riportati nella terra che li ha visti venire alla luce, ovviamente in apposite sale predisposte alla loro conservazione, affinchè divengano metà di turisti amanti di scoperte che riportano nel passato straordinario del nostro pianeta.
Si ringrazia il professore Renato Crucitti per la concessione delle immagini dell’epoca con le fasi di recupero e i reperti della balena.
Guglielmo Rizzica