IL PALLONE DI CUOIO di Nino Cervettini (terzo classificato “Premio Agora’ 2011” a Recanati, concorso nazionale di prosa e poesia).
Il terreno di gioco era nient’altro che uno spiazzo limitante con la fiumara dal lato aperto e con i verdeggianti declivi della montagna dagli altri tre, dove di solito pascolavano le capre. L’assedio della vegetazione che annoverava erica, mirto, rosmarino, ginepro, alloro, lentisco faceva aleggiare su quell’arena metafisica una miscellanea di profumi che inebriava i polmoni dei contendenti e ne faceva un palcoscenico unico.
Non aveva molto di regolamentare. Era lungo un tot, largo dove più e dove meno ed era disseminato di buche che attentavano subdolamente ai garretti dei meno dotati.
Naturalmente non vi era alcuna traccia di linee di delimitazione, né di quelle laterali né, tantomeno, della mediana di centrocampo col classico cerchio e neppure delle linee d’area grande e piccola o del dischetto per i calci di rigore.
Inoltre le porte, tirate su alla bell’e meglio con materiale di risulta e costantemente a rischio di crollo, non avevano reti. Ne risultavano partite agguerritissime tanto sul piano tecnico quanto su quello più squisitamente dialettico.
Stabilire se un pallone era finito in fallo laterale, se un’entrata assassina si era verificata in area di rigore oppure no o ancora, se un tiro aveva trafitto il sette o aveva solamente sfiorato i pali era un’impresa titanica che andava ben oltre le capacità umane e spesso accendeva discussioni che duravano all’infinito.
Ma il problema principale era soprattutto la totale mancanza di una qualunque recinzione.
Capitava perciò che quando una squadra in vantaggio voleva fare melina bastava che scaraventasse il pallone lontano dal rettangolo – o quello che era – di gioco cosicché buona parte del tempo veniva sprecata nella ricerca della sfera in mezzo alle inconsapevoli ginestre e ai distratti sambuchi.
Se però la direzione impressa dal calcione dilatorio prendeva infelicemente verso nord nord-est era facile che il proiettile finisse nel vortice della fiumara e fosse portato via dalle acque turbinose e datosi che ce n’era sempre uno solo, di pallone intendo, il gioco per forza di cose finiva lì, per mancanza dell’oggetto del contendere.
Fu così che per una partita importante Italo, primo dei cinque figli del pastore Enotrio nonché temibile centravanti di sfondamento della squadra locale e idealmente padrone di casa, sentì il dovere di procurare un pallone all’altezza della sfida che ormai inflazionava i discorsi dei pochi frequentatori abituali dell’unico bar del paese.
Lo videro arrivare sabato mattina sul tardi, fendendo trasversalmente la piazza del municipio a grandi falcate. Sembrava un cacciatore con in mano il retino che tratteneva la preda, un esemplare praticamente intonso. Ancora profumava di cuoio e di possibilità con i pentagoni neri e gli esagoni bianchi lucidi e accattivanti.
Nessuno seppe mai dove diavolo l’avesse raccattato non essendo credibile che, disgraziato com’era, quel pallone lui l’avesse potuto comprare.
Per la verità a nessuno passò neanche per l’anticamera del cervello di chiedergli conto della cosa. Resta il fatto che Italo a quel Telstar numero cinque teneva più che alla sua stessa vita.
L’incontro aveva preso da subito una brutta piega. Il punteggio era ormai cristallizzato sul due a zero per gli altri e il libero della squadra avversaria, un fabbro d’aspetto e di mestiere, aveva cominciato come da prassi a randellare quel povero cuoio sempre più indecorosamente e sempre più pericolosamente in direzione fiumara. Al terzo o quarto rinvio sbilenco questo finì inevitabilmente in acqua.
Bruzio, il fratello minore di Italo, era già lì vicino, pronto alla bisogna. Era stato allertato proprio per evitare il peggio: che il feticcio fosse ghermito dal torrente e che andasse a finire a mare, perduto per sempre.
Fu un attimo.
Il pallone centrò il corso d’acqua in un punto dove si restringeva a non più di quattro, forse cinque metri e Bruzio dietro a raggiungerlo prima che la corrente lo trascinasse via. Ma in quel preciso punto l’acqua era imprevedibilmente profonda e incomparabilmente fredda e il malcapitato fu sommerso e cominciò ad annaspare. Pochi secondi nei quali gli passò davanti tutta una vita di bambino di otto anni, qual era.
Poi, mentre era ancora sotto il pelo dell’acqua che già vedeva la Madonna dei calciatori dilettanti dei campetti polverosi, urtò qualcosa che galleggiava garrulo.
Era il pallone che dondolava di qua e di là.
Lo afferrò con le ultime esili forze e finì trascinato insieme a questo verso un’ansa poco più a valle dove riuscì a puntare i piedi sulle pietre del fondo e a riguadagnare la riva col prezioso trofeo in mano e qualche litro di gelida acqua di montagna nello stomaco.
Aveva salvato il pallone e il pallone aveva salvato lui.
Nelle due foto a corredo dello splendido racconto dell’amico e scrittore Nino Cervettini si intravede un piccolo ma significativo “viaggio nel calcio reggino degli anni che furono”.
La prima foto, datata 16 Marzo 1977, ci riporta all’allora costruendo campo di calcio di San Sperato, meglio conosciuto comu “u campu i Roccu” (successivamente intitolato al compianto presidente della locale squadra di calcio, Enzo Franco). Quattro baldi giovanottini del luogo (da sx Michele Pizzimenti, Ottavio Sconti, Aldo Franco e Nino Cervettini) che si divertivano nelle epiche sfide contradaiole (“ammunti cuntra abbasciu”).
Nella foto all’interno dell’articolo, invece, ci troviamo sul rettangolo di gioco del “Provinciale” di Gallina (oggi “Aliquò”). Siamo sempre nel 1977 e nella foto, insieme ad un giovanissimo Cervettini, vi è un vero e proprio “mostro sacro” del calcio reggino e calabrese degli anni ’70 ovvero Paolo Vecchio, un vero “mito” per gli appassionati calciofili.
Demetrio Calluso (Direttore “Reggio10forever”)