Nei primi anni ’70 il calcio dilettanti era più che altro sudore e polvere, odore pungente di olio canforato e balsamo sifcamina, spogliatoi angusti (quando c’erano), scarpe consunte, divise raccogliticce, terreni improvvisati alla bell’e meglio, ginocchia scurciati e tanta, tanta passione. E sciarre, una volta sì e l’altra pure.
Le sfide più accese per il predominio sportivo sulle compagini del circondario dove abitavamo si giocavano al rione Modena nel vecchio campetto che dominava il bivio per San Sperato.
Oggi l’impianto, ampliato e ruotato di circa novanta gradi in direzione monte, è in uno stato di abbandono. Allora era solamente un minuscolo fazzoletto pietroso che si stendeva da sud verso nord, incassato tra la strada e il perimetro dell’acquedotto. Giocarci senza troppo sfigurare presupponeva l’essere dotati tecnicamente, con buoni fondamentali e capacità di palleggio e anche avere gli attributi, per così dire.
I numerosi spettatori che erano soliti assistere alle contese si sistemavano sul dosso lato Coni, postazione che consentiva un’ottima visuale dello sviluppo del gioco. I ritardatari, invece, prendevano posto tutt’intorno il limitare del rettangolo di gioco con i piedi quasi dentro il terreno.
Era un tifo non particolarmente organizzato ma visceralmente partecipato. I giocatori lo potevano quasi toccare con mano. Respirare, addirittura.
La partita quel giorno era, come di consueto, particolarmente sentita e aveva richiamato più di un centinaio di persone tra i quali una discreta rappresentanza degli amici del bar. Il mio avversario diretto era un mediano truce vicino ai quaranta che dicevano avesse giocato nella Reggina dei gloriosi tempi della serie C.
A occhio poteva pure essere vero, data la marcata ipertrofia delle cosce. Brandiva come armi delle lucide scarpette professionali che facevano sfigurare le mie modeste calzature ormai malconce. La notevole circonferenza dello stomaco, però, decretava semmai una più recente propensione alla pastasciutta, ai pipi chini e ai panini con le frittole.
Al secondo o terzo dribbling che gli inflissi nella mia ingenua e giovanile baldanza quel vecchio marpione mi caricò col ginocchio avanti, alto verso il bacino, e facendo leva sulla mia gamba d’appoggio mi fece volare per aria un paio di metri in là.
Nell’impatto col suolo un sassolino aguzzo mi si conficcò nel palmo della mano sinistra, proprio nel pieno del Monte di Venere. Fu necessario l’intervento di un soccorritore, pratico perché figlio di infermiere, che rimosse la pietra e mi fasciò con perizia la mano per consentirmi di continuare il gioco.
Più tardi, al Pronto Soccorso, un medico scorbutico mi strizzò la parte con un aggeggio a pinza per escludere che vi fossero frammenti ancora annidati dentro. Poi tagliò con una forbice l’eccesso di polpa fuoriuscita, oramai di troppo, e mi applicò con malagrazia tre punti di sutura alla ferita.
Dolorante balzai giù dal lettino, ringraziai e me ne andai di corsa, rifiutando l’ulteriore rammendo che il chirurgo in evidente trance agonistica insisteva necessario.
Era il 1976, compivo 15 anni e senza saperlo avevo sperimentato una piccola rivoluzione del regolamento calcistico destinata a prendere piede molti anni dopo: i tre punti a partita.
Nino Cervettini