All’esordio a Ciccarello segnai due reti. Il mister durante gli allenamenti mi aveva chiesto in quale ruolo volessi giocare. A centrocampo, avevo risposto di getto. Ero cresciuto nel mito dei giocatori cerebrali che tagliavano il terreno di gioco con lanci illuminanti di quaranta metri, quello volevo fare. Imitare gente come Overath o Netzer, calciatori tedeschi che allora andavano per la maggiore con le loro squadre di club e in nazionale. Avrei dato qualunque cosa per un assist, ma tant’è. Come fu e come non fu, avevo centrato una doppietta.
I tifosi che poi erano gli amici del bar, quelli di una vita, subito mi battezzarono Garritano come il centravanti calabrese appena acquistato dal Torino di Pulici e Graziani, che avrebbe vinto lo scudetto due anni dopo.
All’inizio la cosa mi piacque. Intendo dire che i nostri sostenitori si fossero addirittura presi la briga di lodare le mie presunte doti calcistiche. Ma con l’andare delle partite l’episodio divenne controproducente.
Tutti immaginavano che, da lì in avanti, avrei fatto caterve di goal e questa aspettativa generò una tensione eccessiva per le mie esili spalle di tredicenne scarso, di età e fors’anche di tecnica.
Mi venne quello che a tennis chiamano braccino corto. Non mi capitò di segnare ancora e, a un certo punto, nemmeno mi avvicinai più all’area di rigore. Istintivamente avevo arretrato il mio raggio d’azione e le occasioni da goal si erano pressoché azzerate, di conseguenza.
Nonostante questa involuzione realizzativa, peraltro non accolta benissimo in società, in realtà la squadra marciava fortissimo tanto da vincere a mani basse il girone eliminatorio di quel campionato N.A.G.C. 1974.
Io un po’ masticavo l’amaro della delusione, mi doleva di aver tradito in maniera così clamorosa le attese dei nostri sostenitori. Per fortuna, a mettere le cose a posto ci pensò uno di loro, forse il più esagitato e per questo tenuto nella dovuta considerazione da tutti gli altri. Se diceva una cosa lui, quella doveva essere.
Nel bel mezzo di una partita, dopo un dribbling nella nostra metà campo a saltare un paio di avversari, mentre distendevo la falcata per un’irresistibile discesa palla al piede fin quasi al limite dell’area avversaria fui raggiunto da un urlo che dagli spalti rimbombò stentoreo fin sul terreno di gioco.
«Vai Antognoniiiiiiiiiiiiiiii!»
Rinfrancato nello spirito da cotanto paragone (non voglio nemmeno immaginare che ci sia chi non conosca il buon Giancarlo, forse il centrocampista italiano più elegante che si sia mai visto giostrare su un campo di calcio) terminai quel campionato in crescendo.
Nella finale provinciale contro la favoritissima Matteotti, forte di questa nuova consapevolezza ritornai perfino a segnare strappando letteralmente il pallone in area dai piedi di uno stupefatto Consolato, un compagno di squadra soprannominato Beckenbauer per l’abuso dei tocchi di esterno. Nel secondo tempo, però, la loro migliore organizzazione di gioco ebbe la meglio e ci castigarono tre volte in rapida successione.
Al bar, qualche giorno dopo, uno degli anziani mi batté forte una pacca sulla spalla.
«Tu il tuo l’hai fatto, Antognoni!»
Da allora fino al momento di partire ventenne, per lavoro, lontano dalla mia amata terra, compresa quella battuta dei campi di calcio nostrani, per tutti fui Antognoni e ne sono sempre stato fiero.
Nino Cervettini