RIDATEMI IL SUPER SANTOS. MI MANCA LA POESIA di Gianfranco Marino.
In questi giorni di semi clausura ho ingurgitato di tutto, non parlo certo di questioni alimentari, per le quali nessuna clausura riuscirebbe in verità mai a redimermi, parlo invece di libri, vecchi ritagli di giornale che ripercorrono più di vent’anni di lavoro, filmati più o meno recenti, notizie e approfondimenti di ogni tipo, tralasciando di proposito l’attualità (fatto salvo un telegiornale al giorno) per evitare di venire fagocitato dal buco nero dell’informazione di massa, quella che ti illude di accendere il cervello spegnendotelo a piccole dosi senza che tu ne abbia contezza, quella che cancella la coscienza facendoti mettere in fila col cerotto in bocca ed il pannolino sotto la tuta. Tra la pluralità di immagini e contenuti che mi hanno attraversato come dentro un frullatore gli occhi ed il cervello e che ora a ripensarci mi preoccupano anche un po’, sono arrivato persino a rivedere le puntate della prima serie de “L’uomo Tigre” e la sintesi di tutte le partite del Mundial di Spagna ’82, e se grazie alla prima serie animata ho riscoperto un’antipatia che avevo rimosso, quasi scontata per Mister X, e un’idolatria smodata per “Naoto Date”, persa tra vintage e romanticismo, grazie alla seconda ho rivissuto una carrellata di immagini che mi ha riportato all’infanzia assai più dei cartoni animati, cristallizzando, assieme al senso di una grande impresa sportiva, anche un periodo storico che oggi sembra ancora più lontano. Proprio su questo mi vorrei soffermare, con una breve analisi della quale sono certo non potevate fare a meno. Ecco perché in ossequio al mio proverbiale altruismo vi partecipo di alcune semplici considerazioni. Premetto che dopo più di mezza vita spesa in giro per i campi della provincia e della regione, da calciatore prima e da dirigente sportivo poi, non seguo il calcio ne volutamente mi interesso in generale di calcio ormai da diverso tempo, e questo già rappresenta per me un dato significativo di come la vita possa cambiare in modo impronosticabile.
Ciò premesso, torno alle immagini mundial. Rivederle, risentire la voce di Nando Martellini mi ha fatto riavvolgere il nastro facendomi ricordare particolari incredibili, dettagli che evidentemente erano custoditi nell’inconscio e mai realmente rimossi. Ho rivisto nella mente dove e con chi mi trovavo durante ogni singola partita, da quei tre pareggi nella fase di qualificazione fino alla cavalcata finale conclusa in un crescendo rossiniano. Ho pensato che fosse normale ricordare in quel mondo, perchè tutto sommato la vittoria di un campionato mondiale di calcio è un avvenimento storico che tutti ricordano. Poi però, proprio riguardando quelle immagini mi sono convinto che c’era dell’altro, in fondo, se vogliamo i mondiali di calcio li abbiamo rivinti anche in tempi recenti, in quell’estate 2006 del “Cielo azzurro sopra Berlino”. Ed è stato proprio questo parallelismo a farmi scattare la riflessione, perché mi sono chiesto cosa avessero di così speciale quei mondiali di Spagna, tanto da rimanere nell’immaginario di tutti, almeno di tutti quelli che li hanno vissuti da spettatoti, come la vittoria mondiale per antonomasia, un imprimatur che i più attenti avranno senz’altro colto in un dettaglio tutt’altro che trascurabile. Al rigore di Fabio Grosso, quello decisivo che ci consegnava il quarto titolo mondiale della storia, il telecronista si lasciava andare ad un remake ritengo del tutto spontaneo, non riflettuto, dell’urlo di Martellini, un quattro volte campioni del mondo che a me ha dato tanto la netta impressione di inconsapevole riconoscimento di originalità, quasi un’attribuzione di paternità a quel triplice urlo dell’82 che nessuno di noi dimenticherà mai. Ho pensato come tutto questo non fosse casuale, perché l’importanza, il valore, la ricaduta sociale e lo stesso intimo e corale significato assunto da un qualsiasi fatto storico, come può essere anche un trionfo sportivo, vada necessariamente ricercato nella sua contestualizzazione. Poche cose come il calcio sanno farsi fotografia fedele della società, fenomeno di costume, cartina di tornasole di un’epoca. Ecco la differenza credo stia proprio in questo, nel valore di un calcio che evidentemente non è più uguale, nel senso di uno sport che oggi fotografa una società profondamente cambiata fin dentro i suoi gangli vitali.
L’immagine del Presidente Pertini che sbraccia al cielo al terzo gol rifilato da Sandro Altobelli alla Germania Ovest, quello che di fatto chiudeva i giochi, diventava viva metafora di una Nazione che non c’è più e che nel calcio, in quell’appuntamento, in quell’afoso mese di luglio, sanciva una superiorità che andava evidentemente ben oltre l’impresa sportiva, per un popolo che nel calcio vedeva riscatto sociale, identificazione, e soprattutto poesia, un componimento che si materializzava nei pentagoni neri del pallone di cuoio, nei tacchetti delle scarpe, nella grafica spartana, asciutta delle figurine Panini, nell’attesa di Novantesimo minuto o della Domenica Sportiva quando ti andava bene e tuo padre non ti costringeva ad andare a letto perché il giorno dopo c’era la campanella della scuola. Una poesia che rintracciavi nella numerologia progressiva di quelle maglie di lana pesante con la scritta NR in direzione del cuore, messe in fila dalla 1 alla 11, che consegnavano allo stopper sempre col numero 5 la ferrea marcatura del centravanti sempre col numero 9. Poesia vera il calcio di una volta, che dava velocità ad una società ancora lentissima, in cui il Commodore 64 era ancora riservato a pochi eletti, ed in cui se volevi incontrare una ragazza dovevi cercare ad un’amica il numero di telefono e aspettare che fosse sola in casa per azzardare uno squillo dalla cabina telefonica a gettoni, sperando non tornasse la madre e incrociando le dita augurandoti che la prendesse bene. Forse mi stò perdendo in un moto di autoconvincimento, in una sorta di elogio, di sterile magnificazione di tutto ciò che è passato, e in quanto tale debba essere necessariamente inteso come qualcosa di bello e irripetibile, insomma di migliore. Ma ditemi voi, cosa c’è di più poetico del Super Santos che rimaneva incastrato sotto la marmitta della 131 Mirafiori ? ginocchia sbucciate, maglie strappate, e quell’urlo iniziale, perentorio e indiscutibile, il pallone è mio e le squadre le faccio io sennò non si gioca. Poesia irripetibile il calcio di allora che ci consegna un po’ di lucida malinconia, una certa irrinunciabile tristezza nel pensare ai bambini di oggi, che certo esulteranno col salto di Cristiano Ronaldo, ma che non avranno mai la gioia di recuperare quel Super Santos col segno della marmitta, un trofeo da sollevare in aria come quella coppa stretta tra le mani da Dino Zoff nella notte del Bernabeu.