Cari lettori, oggi pomeriggio, ho ricevuto una splendida email dal mio amico Franco Fazzino. Email di riflessione su questo difficile periodo, ma non solo. Una vita vissuta, una vita che appartiene anche a tutti noi. Ho ritenuto di pubblicarla per intero, compresa la prefazione indirizzata al sottoscritto, insieme ai quattro Capitoli della sua narrazione, intensamente vissuta da Franco, che ringrazio di cuore per la fiducia nei miei confronti. Uno spaccato della vita quotidiana finemente tratteggiato con spunti di riflessione non indifferenti, considerato il particolare momento storico che stiamo tutti vivendo.
“Il tempo il bene più prezioso che possediamo, ce ne accorgiamo quando non abbiamo più tempo…”
Buona lettura !
Demetrio Calluso (direttore Reggio10forever)
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Quel 12 agosto a San Sperato di Franco Fazzino
Prefazione
Caro Demetrio, è dalla sera del 23 marzo, data che resterà negli annali perché l’Italia e poi il mondo, si è fermata, che sono a casa. Fermo come il tempo che ho cercato di riavvolgere, ho avuto tanto tempo per riflettere sul come eravamo, sul quello che siamo, e soprattutto, attraverso quali tappe del nostro vivere quotidiano, siamo oggi diventati. Devo confessarti che il tuo giornale con le sue rubriche “come eravamo” e “amarcord” mi ha stimolato e messo addosso quasi un’ “ansia smaniosa” di riflettere e di rivedere nella mia testa flashback e fotogrammi, che credevo perduti e che si sono materializzati nelle notti insonni e carichi di preoccupazioni in questo periodo di quarantena, per farmi rivivere momenti, luoghi e persone che fanno parte della mia vita, credevo persi, e che in questi giorni sono tornati a camminare al mio fianco. Vedi Direttore, io da 30 anni mi sveglio tutti i giorni alle 6,00 per iniziare una giornata lavorativa che non finisce prima delle 18,00. Tutti i giorni da 30 anni, escluse logicamente le domeniche, ma tutti i mesi di tutti gli anni. Quando sono in ferie lavoro dalle 7,00 alle 13,00 … e queste le considero vacanze!
In questi giorni ho avuto tempo … il tempo il bene più prezioso che possediamo, ce ne accorgiamo quando non abbiamo più tempo.
Il tempo di andare a trovare un genitore che non c’è più, il tempo di fare una passeggiata con tuo figlio bambino mano nella mano, che nel frattempo è cresciuto e la tua presenza al suo fianco è diventata “pesante” e ti devi spostare, lasciandogli un po’ di strada per farlo camminare da solo. Il tempo per sederti sullo stesso “muretto” diventato troppo basso per la tua “statura”. Il tempo di sederti insieme ad un amico, di rivivere i minuti, le ore, gli anni, che non si sono persi nel nulla, finiti nel mare come la fiumara, ma il loro fluire ha riempito i nostri cuori, i nostri corpi, nel profondo di ogni cellula, ci ha arricchito di qualcosa che rimane per sempre e nessuno, neanche il tempo, potrà mai rubare.
Caro amico Demetrio, ho buttato un po’ di ricordi sulla carta, ne sono usciti i primi quattro capitoli di una narrazione che in futuro potrei riprendere. Per ora mi basta. Non voglio forzare i ricordi. Per me la scrittura è fare sgorgare qualcosa da sola. Magari indirizzarla, scavare dei solchi, ma la fonte deve zampillare sempre e solo in modo naturale, senza forzature, se c’è acqua verrà fuori se no si aspetta la prossima stagione delle piogge … speriamo che non sia un’altra pandemia.
Ti mando qualcosa di mio, che ti affido perché di te mi fido, saprai farne buon uso. E pensare che fino a qualche mese fa, un po’ per il mio carattere schivo e riservato, un po’ perché mi vergogno di mostrare i miei sentimenti, le mie riflessioni intime non le avrei affidate neppure al mio confessore e intimo amico finito a fare il parroco nella parrocchia di San Bruno, ma sarà il periodo che il mondo attraversa, saranno gli anni che passano, la vecchiaia più vicina, il bisogno di raccontare ai miei figli chi è stato suo padre e da dove è venuto, questo povero ricco, vissuto di sogni in un tempo e in un posto da sogni … che ora ti affido.
Con Affetto
Franco
Capitolo 1
Non si è respirato tutto il giorno. Il vecchio termometro attaccato al muro nel corridoio vicino l’entrata segna 42 gradi dalle otto di mattina, ogni tanto la nonna gli da un’occhiata e pensa: – <si deve essere guastato>- poi continua a spazzare il pavimento di graniglia. Paolino oggi è molto arrabbiato. Gli hanno detto che stanotte deve andare a dormire dalla zia, e poi sua mamma sta male e da un po’ di tempo pensa solo al bambino che sta nella sua pancia e la fa stare male, non vede l’ora che esca per ammazzarlo di botte, il cattivo.
Sfoga la sua rabbia su una colonna di formiche che attraversano il cortile carichi di vivande, li segue lungo le fughe del pavimento, una fila ordinata che si arrampica fino alla soglia di marmo appoggiata al davanzale della finestra che dà luce alla stanza da letto, si infilano in una crepa sul muro e scompaiono in mondi infinitamente piccoli dove Paolino entra ed esce con la sua fantasia.
Il cortile davanti alla casa, recintato con una snella ringhiera di tondini di ferro battuto e un cancello pure esso di ferro lavorato con fregi, realizzati a mano da esperti maestri “forgiari”, è sollevato dal piano stradale per mezzo di quattro scalini .
Il cortile che funge da campo di calcio, arena per future infinite partite da giocare con i fratelli e gli amici vicini di casa, oggi che Paolino ha appena tre anni è il luogo da dove parte la sua immaginazione per correre insieme ai campioni che vede in bianco e nero quando papà e tutti i maschi del vicinato si siedono di fronte al mostro che apre pian piano il suo occhio, all’inizio solo un bianco puntino che si allarga e si anima riempiendo lo schermo e sputando fuori uomini in pantaloncini bianchi con canotte di varie sfumature di grigio intenti a prendersi a calci mentre inseguono un pallone.
Paolino sa che quel ciclope si chiama televisore e sa anche, per averlo sentito da mamma che lo raccontava alla comare, che quello è stato il regalo di nozze dello zio Mimmo.
Regalo costoso. Tant’è che è stato il frutto di un patito baratto. Già, il ciclope dall’occhio di ghiaccio, acciaccato e già usato, che respira attaccato ad un filo che termina in una presa sul muro, la quale per nessuna ragione si dove toccare perché brucia i bambini e la mamma si infuria prendendoti a botte con il cucchiaio di legno, Paolino sapeva che è stato ricevuto in cambio della vecchia Fiat 1300 di un grigio scolorito ma con dentro al cofano 65 cavalli di cui era innamorato lo zio (di tutti i 65 nessuno escluso) tanto che avrebbe sicuramente preferito regalare la zia Tita anziché disfarsi della sua vecchia compagna di latta.
Il sole è ancora alto anche se sono le otto, d’estate le giornate non finiscono mai, e sono venuti a prenderlo. Per la verità non deve andare poi tanto lontano. Sua zia abita a neanche 20 metri da casa sua. Le case popolari attaccate alla Chiesa, dei blocchi simmetrici a ferro di cavallo racchiudono un cortile comune dal quale si accede a sei unità abitative poste al solo piano terreno, ognuna con dietro pochi metri di terra per piantare le piante o costruire un abusivo ripostiglio per mettere i secchi o le scope, cassette di legno con dentro patate ancora sporche di terra, bottiglie impolverate, girate a testa sotto di vini bevuti l’altr’anno, o conserve bollite di pomodoro pelati.
Case del popolo costruite con “Regio Decreto” e abbattute quasi un secolo dopo dal “Decreto Reggio”.
Cortili vissuti più che gli interni delle abitazioni. Soprattutto d’estate. Si mangia fuori dal portone di casa, sempre aperto di notte e di giorno, chi è fuori o sta rientrando, prende una sedia, un bicchiere e si siede a mangiare. Si condivide cibo, bevande, vino, caffè, tutto è a portata di tutti, si sforna il pane ed è una festa, si friggono le crespelle e si mandano ai vicini, si assaggiano dolci, polpette, frittelle, castagne arrostite su padelle bucate, un viavai di donne con grembiuli e scodelle, insalate di pomodoro condite con olio di oliva, cipolla e basilico, boccacce di funghi, melanzane e alici sott’olio, peperoni arrostiti e salsicce buttate su braci di fornacette che escono fuori dal nulla, e in un attimo sono il centro da cui si dipana la festa. Decine di persone in un’unica grande famiglia raccolta davanti a quei fuochi come un’unica sola famiglia raccolta d’inverno intorno a un braciere.
Nelle notti d’agosto i cortili si popolano di sdraio e lettini, giacigli improvvisati con sacchi e con teli buttati per terra per sfuggire alla calura di tetti infuocati, che trattengono il calore del giorno e tolgono il respiro a chi è abituato nei campi, a vivere all’aria aperta, a svegliarsi con l’alba e riempirsi i polmoni del sole che sorge dal lato dei monti o respirare un tramonto che si butta nel mare e ti lascia dentro una cosa che non sai definire e ti chiedi che è stato, … ma un attimo e passa, e ritorni alla vita vissuta nel caos del cortile di casa.
Capitolo 2
La sveglia sul comodino segnava le cinque. Sembrava di essere in un ospedale da campo, chi si era buttata sul divano sfondato, coperto da un telo, chi sulla poltrona che si apriva con un letto nascosto all’interno di essa, due si erano accampate in cucina sulle scomode sedie di paglia, altre due non smettevano mai di parlare, impegnate come da contratto, a cercare di fare coraggio alla ormai quasi puerpera, raccontando storie di santi, di martiri e di lupi mannari, di vecchie streghe che lanciavano brutte guardature, talmente cattive che anche l’acqua dalle fontane pubbliche cessava di scorrere al loro passaggio. Erano tutte donne: c’era la nonna, comandante in pensione dell’intera caserma, sempre pronta a impartire ordini precisi che in tempi di guerra ti tengono occupato e ti salvano la vita, ma non in quei giorni a guerra finita da più di vent’anni, non fanno altro che renderla odiosa alle nuore. Approfitto per dire che ho omesso di specificare che fosse sì nonna ma nonna paterna. Ancora non potevo capire come erano intrecciati i miei rapporti parentali, ma, mia mamma e mia zia Tita, erano sorelle sposate rispettivamente con due fratelli Filippo e con zio Mimmo, di conseguenza Filippo era mio padre.
Ancora pochi centimetri, dal mio ingresso alla vita, e già sentivo litigare mia nonna, la madre di mio padre e di mio zio Mimmo, già sopra citato autista di automobile fiat 1300, con la mia prossima madre Francesca e le sue sorelle Tita e Maria. Di fianco comare Carmela e Felicia davano ragione alla nonna in tutto e per tutto, mentre la Signora Kata e la cugina Mela erano più propense a giustificare le paure di mia madre e delle sue sorelle. Gli unici passi pacati che sentivo erano quelli della levatrice, la signora Concetta, che andava e veniva tra il bagno, la cucina e la stanza da letto, portando lavamani pieni d’acqua e tovaglie e strisce di lenzuola consumate e mai buttate per essere riusati in altri modi.
E tra un batti e ribatti, un si fa così da quando è nato il mondo, un sentite a chi è più vecchia e ne ha passate di più, mentre erano tutte intente a dimostrare che ne sapevano una più delle altre, io misi fuori la testa e cominciai a guardare questo mondo percepito solo attraverso rumori e suoni che arrivavano distorti, come le ombre a Platone nel mito della caverna.
“Per nascere son nato”… anch’io come il poeta potevo recitare questa frase, grido di liberazione lanciato con l’eco di un vagito nell’alba di un dolce mattino d’agosto. Ci ha messo 11.928 km e un paio di anni per arrivare da Reggio Calabria a Santiago del Cile dove la stessa voce è stata raccolta da un’eco più forte e capace di girare e di farsi ascoltare dal mondo.
… Che a farmi tornare nel posto da cui ero venuto, nel Nulla o nel Tutto, ci stavano pensando loro, le bravi comari.
Mentre l’ostetrica stanca salutava mia nonna e le mie zie e si ritirava verso casa dicendo che ormai mancava poco all’alba, la comare Carmela scappava a chiamare mio padre, che aveva passato la notte a casa di zio Mimmo a tagliare salame ed a offrire bicchieri di vino, che dovevano essere un buon viatico per il nuovo nascituro, a don Cosimo, a mastro Mico e compare Nicola , che insieme allo zio erano stati svegli a fumare giocando un po’ a carte e mentre passavano i carichi, le briscole o andavano liscio, contribuivano ad ingannare le ore notturne raccontando aneddoti e fatti accaduti prima della guerra. Si parlava di donne con rare qualità ora che era possibile descriverle perché non c’erano le mogli, si vantavano di successi ottenuti con destrezza e fascino latino, ricalcando pari pari scene che avevano visto al cinema ne “Il figlio dello sceicco” di Rodolfo Valentino, oppure narravano di amicizie improbabili con soldati americani che conoscevano perfettamente il dialetto locale per essere figli di genitori emigrati partiti da Reggio e approdati a New York, partiti per fame, portavano il cibo sotto forma di cioccolata , carne in scatola e gelatina, che davano un po’ di sollievo a stomaci svuotati dalla carestia che accompagna ogni guerra.
Per mia fortuna la comare Carmela è stata veloce come un lampo, ha percorso venti metri in venti secondi, proprio come “il figlio del vento” degli anni novanta ancora a venire, neanche sapendo che la sua celerità ha permesso a me di andare avanti pianino nella vita.
Dicevo che “Per nascere son nato”… e che non ci stavo mettendo tanto tempo per togliere il disturbo in questo mondo, perché, eravamo rimasti all’euforia che si era creata dal buon risultato del parto, avevamo lasciato le comari a brindare liete con vermouth martini trovato in dispensa , ed io ero sul letto, asciugato e pulito, avvolto in un candido asciugamano di lino trovato per l’occasione, ma lasciato da solo, un minuto…
Non so come ho fatto, mi raccontarono dopo, che tanto ho scalciato e mi sono mosso con voglia di andare incontro alla mia nuova vita, che son scivolato dal letto finendo però a testa sotto e colpendo col petto qualcosa di duro che mi tolse il respiro e le deboli forze, impedendomi persino di strillare e richiamare l’attenzione delle donne festose nella stanza di fianco.
L’arrivo di mio padre si rivelò provvidenziale in quanto voleva vedere suo figlio. … E vallo a trovare dov’è ? … sotto il letto? … e come ci è finito ? Dopo tante domande finalmente mio padre si decide a prendermi tra le sue braccia forti e vedendomi paonazzo e privo di respiro, spaventato si mette a gridare, a piangere e a stringermi al petto.
Correva per strada senza sapere dove, voleva chiedere aiuto a qualche santo del cielo, ma siccome non era addentrato in questioni religiose, gli venne istintivo di correre verso la Chiesa. E correndo mi stringeva ancora più forte, tanto che a distanza di tempo non sa se fu allora che parti il miracolo, o fu solo la sua forza che incrinandomi una mia debolissima costola premette sui polmoni riattivandomi il respiro e facendomi scoppiare in un fragoroso pianto che riempi l’alba e la piazza di fronte alla Chiesa. In ginocchio mio padre mi posò sui gradini e piangemmo insieme quel giorno davanti a Maria.
Capitolo 3
E fu così che la mia clessidra iniziò a fare scorrere i suoi granelli di sabbia e spostare i minuti dalla parte superiore, traboccante e ricolma, al vasetto inferiore, vuoto e capiente, che aspetta i granelli come belva feroce con le fauci spalancate per mangiarti la vita.
Prigioniero tra le sbarre della culla, mi accorgevo dalle notizie che mi arrivavano tutte le sere dal telegiornale, che nascere alla fine degli anni 60 non era proprio un bel periodo per venire al mondo. Il 4 aprile 1968 il conduttore del tg2 Andrea Barbato dà al mondo la notizia che un uomo fu ucciso perché aveva un sogno. “I have a Dream” risuonava il suo grido di libertà che riempì la terra per gli anni a venire. Dall’inconscio del primo anno di vita mi porto dentro che si può vivere per un sogno e che un sogno ci guida, ci mostra la strada ci porta per mano, basta che non ci svegliamo. Sarà stato per questo che ho vissuto da sempre affacciato alle nuvole, già a tre anni inventavo i miei sogni da sveglio, ero un abile regista anche se ancora non sapevo che cosa fosse un regista, mi giravo le scene di film, che rivedevo chiudendo gli occhi nei pomeriggi costretto da mamma a far il riposino, senza aver mai visto una macchina da presa, anzi ignorando finanche l’esistenza di quella che in seguito fu chiamata telecamera. Negli anni ho cercato di regalare sogni a chi ho amato o di venderli a chi non ne ha.
L’anno dopo tra il 20 e il 21 luglio casa mia era piena di gente. Tutti davanti al televisore ad aspettare di vedere Neil Armstrong e Buzz Aldrin passeggiare sulla sabbia lunare , e quando finalmente Tito Stagno e Ruggero Orlando si misero a litigare sul quando “Ha toccato” ci fu un’esplosione di gioia e di abbracci che neanche c’è stata nel centro spaziale della Nasa di Houston. Ci fu pure chi uscì fuori in cortile e alzando la testa pensò di vedere due piccoli uomini in tuta e scafandro fare piccoli salti sul suolo lunare, ma più che la scienza hanno potuto i bicchieri di vino che mio padre faceva girare tra gli ospiti intenti a seguire la diretta dello sbarco lunare.
In quegli anni ho imparato la cattiveria dell’uomo nelle notti illuminate dalla luce del napalm che brucia ogni cosa, distrugge foreste, piante e ogni specie animale, e intere famiglie. Non fa distinzione tra giovani e vecchi, neonati e adolescenti, bambine e lattanti e porta la morte nei villaggi vicino Saigon.
Avevo tre anni, quando io insieme a tutti i reggini, abbiamo vissuto la nostra prima guerra. E fu guerra vera. Con morti e feriti e reduci che portano ancora il segno di battaglie combattute in piazza tra le barricate. A quei tempi mio padre sbarcava il lunario alla guida di un motocarro modello “Moto Guzzi Ercole 500 cc”, cassone ribaltabile , cambio a ingranaggi scorrevoli a tre velocità + retromarcia, con comando manuale , immatricolato nell’anno 1955 era tenuto come nuovo, lavato, ingrassato e lucidato tutti i fine settimana, perché mio padre teneva sempre a mente che gli era costato 1.150.000 Lire , anche questo era il frutto di un affare fiutato da zio Mimmo.
Lo zio non aveva mai sudato in vita sua, mai preso in mano un attrezzo o un arnese, mai studiato in un libro, leggeva al massimo i titoli di un giornale che comprava ogni giorno per sentirsi importante. All’epoca leggevano soltanto i preti o i dottori, medici di famiglia, e qualche maestra che cercava di fare entrare nella testa dei bambini l’alfabeto a forza di schiaffi , forse i metodi pedagogici di quegli anni prevedevano che la cultura entrasse in noi studenti premendo con forza sul padiglione auricolare per farla arrivare al condotto uditivo e convogliarla fino al timpano, ….ed ecco il miracolo che ci trasformava da mocciosi ignoranti a studenti modello, “Grazie Maestra…” chi prendeva più botte diventava più bravo “ … per quante me ne hai date”. Zio Mimmo di schiaffi ne avrà presi pochi in quanto raramente appariva davanti alla maestra; preferiva frequentare insieme a suo padre e al fratello maggiore i mercati e le fiere che si svolgevano regolarmente seguendo calendari stabiliti e consolidati nel tempo, dove si esercitava nell’arte del commercio, molto spesso nel comprare cose inutili o guaste o prive di valore, per rivenderle poi meno di quanto le aveva pagate, logorando e impegnando un capitale non suo, ma sottratto alla zia che metteva da parte una lira alla volta cucendo vestiti e corredi nella sua casa popolare adibita a bottega di sarta.
Mio padre, anche lui le scuole le aveva frequentate fino alla terza elementare, ma, a differenza di zio, era un giovanotto che aveva tanta forza nelle braccia e soprattutto “fantasia” di lavorare.
Già a dieci anni si dava da fare con un pezzetto di terra che la madre gli aveva diviso con i fratelli e che coltivava con cura e passione facendo a gara con loro per renderlo sempre più fecondo e ricavarne profitto. Più volte occasione di lotte e dispetti tra fratelli invidiosi o solo incapaci di fare fruttare altrettanto i loro orticelli, più volte mio padre fu costretto a dormire nell’orto a difesa dei frutti che spuntati radiosi tendevano a prendere direzioni diverse e varcare i confini imposti dalla nonna.
All’età di 14 anni Filippo aveva già trovato lavoro in una fornace che produceva mattoni a Melito Porto Salvo. Si svegliava tutte le mattine alle quattro perché, in bicicletta insieme a un amico di qualche anno più grande di lui, dovevano percorrere 50 chilometri per arrivare sul posto e lavorare fino alle sei del pomeriggio, quando a cavallo delle loro biciclette pedalavano fino a Reggio per fare ritorno a casa, che già si fa sera. Poi con gli anni, diversi saltuari lavori, fin quando, sempre per colpa di mio zio, che ne aveva sposato la sorella, ha conosciuto mia madre. Naturale per loro innamorarsi a vicenda. Due giovani pieni di vita ma nullatenenti, che avevano in comune il bisogno di avere qualcuno da amare e accudire, difendere, e finalmente qualcosa di suo e solo suo , senza dargliene parte a genitori, a fratelli, a sorelle, a compari, o vicini invadenti e impiccioni che ti tolgono il fiato e i pensieri e si infilano nel tuo letto e nel tuo cappotto, come il fumo di una sigaretta nei polmoni e se ci riescono, ti rubano anche il cuore. Così ci pensarono poco, e misero su la famiglia.
Il miracolo economico degli anni 60, che ha interessato l’Italia tra gli anni 50 e 60, ha lambito anche la nostra terra, sia pure arrivando con un po’ di ritardo, con circa dieci anni di scarto rispetto a Milano. Comunque Reggio Calabria all’inizio degli anni 70 è una città in forte espansione che cresce ogni giorno. Dove prima c’erano distese di giardini coltivati a bergamotto, spuntano case, come fiori sbocciati dal nulla e fioriti in una notte. Si coprono fiumare, si tracciano nuove strade, si abbattono ruderi contorti come nani, e si da vita a condomini giganti che alzano sui loro terrazzi antenne che arrivano a pungere il cielo.
Il motore del motocarro Guzzi 500 cavalli non stava mai fermo. Mio padre correva da un cantiere all’altro a portare cemento, e tondini di ferro, e sabbia e pietrisco per le fondazioni; il giorno dopo cemento e mattoni e pignatte e travi di ferro e legname per far crescere in fretta i cubetti grigi che dall’alto della collina si schieravano in fila degradando verso il mare.
Fu proprio nel Luglio degli anni 70 che la città insorse. Cortei di operai, studenti, vecchie signore e commessi, pensionati e massaie, una massa variegata di popolo che grida a una voce “Viva Reggio Capoluogo!” La città è bloccata dallo sciopero generale. Il motocarro riposa in strada parcheggiato davanti al cortile di casa. Scarseggiano i soldi, le provviste in dispensa, e poi la cambiale del motocarro si deve ancora coprire. A mio padre interessa poco la politica, vorrebbe solo lavorare. Poi un giorno il capo cantiere di un fabbricato in costruzione in via Sbarre si ricorda di mio padre e del suo motocarro, del servizio trasporti e cassoni di inerte, metri cubi buttati nei plinti a riempire fondamenta e telai di base, per rendere stabili sulle gambe i palazzi, per allenarli a ballare ma senza cadere se si svegliarà un giorno il vulcano o la crepa che è sotto di noi si ricorderà di scivolare verso l’Africa e come ogni cento anni darà un colpo di forbice che aggiungerà uno strappo al vestito di “Fata Morgana” .
Si ricorda di lui e va a trovarlo per dargli in carico un altro lavoro, questa volta neanche per soldi, se vuol farlo è per il bene di tutti.
Mio padre capisce poco o niente di Roma, o di Catanzaro, di Fanfani o di Pietro Battaglia, di DC, di PCI e di MSI, non capisce se Ciccio è il nome e Franco è il cognome o viceversa, più gli parlano e più lo confondono, ha imparato a star zitto pensando : “meno parlo è sicuro che di meno sbaglio”. C’erano gli operai con il capo cantiere e quel mattino c’era pure l’ingegnere. Mio padre ossequioso gli dava del Lei. Se agli altri poteva rifiutargli il favore, davanti a chi progetta e realizza strutture, ricordando peraltro i giorni in cui gli ha dato fiducia e lavoro, non sa fare altro che ripetere : sì dottore!
Ricorda i giorni che era senza lavoro, con la moglie incinta del primo bambino e la cambiale in tasca troppo pesante per uno che digiuna da due giorni e a casa ha altre bocche da sfamare. Il cantiere era fermo, si aspettavano le autorizzazioni dal Genio Civile, potevano passare giorni, mesi, o anche anni per come si spostavano lenti sulle scrivanie i fascicoli appesantiti dalla burocrazia.
Mio padre tutte le mattine passava dal cantiere per chiedere lavoro da motocarrista o anche da manovale. Ricorda il giorno che lo incontrò per caso, proprio fuori della baracca prefabbricata, che fungeva da ufficio, arredata con una semplice scrivania dove erano buttati alla rinfusa rotoli lucidi di planimetrie, disegni fatti in scala 1 a non so quanto, mappe catastali, terreni frazionati, visure e canapine. L’ingegnere era tornato solo per prendere la borsa di cuoio da cui non si separava mai, si incontrarono i suoi occhi con quelli di mio padre e non so in quel momento cosa vide: forse un giovane sceso dal treno per Torino, l’ingresso al Politecnico, la stanza su in soffitta senza luce, le sere al lavoro per sbarcare il lunario, gli anni per arrivare all’agognata laurea e poi la scelta di tornare a ricostruire il suo paese. Forse vide tutto questo o solo un uomo disperato…. e allora con garbo e molta educazione, quasi temendo di offenderlo gli disse in dialetto per farsi sentire vicino : “Pi favuri don Pippu, mi potiti iutari mi sistemu u giardinu, mi cacciu un pocu d’erba e mi svoutu a cantina da me casa, chi ndi stu periudu, mi avviu u canteri, a trascurai assai e non si poti chiu trasiri i quanta mundizza aiu a iettari?” Felice mio padre di ritornare ad un orto si impegnò tutta la giornata fino a dopo il tramonto a sistemare solchi, raccogliere erba in fasci, darle fuoco e pulire, tant’è che alla fine il giardino sembrava un salotto. E poi nei giorni a seguire iniziarono le pulizie in casa, svuotarono cantine, pulirono le botti, liberarono soffitte, con il motocarro fecero anche un trasloco di mobili nuovi e smaltirono quelli usati che in verità erano molto più nuovi di quelli che aveva a casa mia mamma, quindi una vetrinetta in mogano finì nella sua cucina, una scrivania in noce fa ancora parte del mio arredamento e su essa ci stanno studiando i miei figli e tanti altri oggetti e minuterie mi fanno ancora oggi pensare all’ingegnere.
Dopo tutto questo, se diceva una cosa l’ingegnere era Vangelo e si eseguiva alla lettera.
Si misero d’accordo con il capo cantiere che l’indomani mattina ancora prima che il sole nascesse, quindi verso le quattro e mezza, si sarebbero visti al cantiere, dove ci sarebbe stata pronta una squadra di operai per caricare sul motocarro dei blocchi di cemento. Domani avrebbe saputo il luogo di consegna. Felice di fare qualcosa gradita all’ingegnere non li fece andare via senza farli accomodare alla sua tavola e in fretta fece preparare dalla mamma un piatto di spaghetti per ciascuno, che era il cibo che serviva al sostentamento della sua famiglia per una intera settimana.
Il giorno dopo già alle quattro il motocarro si trovava davanti al cancello del cantiere a Sbarre. Anche gli altri erano presenti perché se si dava un orario, era tacita convenzione che si arrivasse mezz’ora prima.
Non li aveva mai visti lavorare così con questa foga, dieci minuti e sul motocarro si era già accatastata una pedana di blocchi di cemento e sullo stesso cassone presero posto due degli operai, un’altro si era seduto dietro al capocantiere su una vespa piaggio che faceva strada a mio padre. Fatti pochi chilometri, in via Furnari, posteggiarono e con grande sorpresa di mio padre, cominciarono a disporre i blocchi proprio in mezzo alla strada per edificare una barriera a mo’ di barricata. I blocchi non bastarono e si dovette tornare a fare un altro viaggio, e questo per mio padre è stato il momento assai più duro, perché ormai capiva e scattava la paura. Non vedeva l’ora di andarsene, di rinchiudersi a casa, i blocchi che chiudevano solo in parte la strada portavano anche la sua firma e potevano costargli più del sequestro del mezzo , forse anche della sua persona, e non poteva permettersi il lusso di riposare in galera ora che stava per nascere anche un altro cristiano che dipendeva dal lavoro suo e del motocarro. Tornarono a caricare e sembrava un “Ferrari” nel suo giro veloce, poi dava una mano a lanciare blocchi sul cassone che si riempì nel tempo di un’Ave Maria, che continuava a ripetere nel viaggio di ritorno. Oh Maria fa che non sia passata la polizia, ti portu nu ceru chiu grandi di mia, fai pasari stu bruttu momentu e vegnu a Polsi mi ti ringraziu cuntentu” . La Madonna pareva aver sentito le sue parole, le strade ancora erano deserte. L’alba stava per nascere e poterono finire di realizzare la barricata. Ma quando aveva già ingranato la marcia e fatto manovra per partire, il capocantiere gli gridò di fermarsi perché sul cassone aveva dimenticato qualcosa. Saltò sopra il motocarro e nascosta dentro una sacco, in una insenatura della sponda, tirò fuori una bandiera bianca con la scritta “Nuova Repubblica di Sbarre” . Corse come un coniglio sopra un prato, si arrampicò con due salti alla barricata, fece un buco nel blocco e si fece lanciare un bastone di legno trovato li vicino, al quale annodò la bandiera che si mise a sventolare contro il vento. Fu in quel momento che si sentì urlare “Fermi o sparo! Sciagurati, delinquenti , anarchici senza regole. Chi pensate di essere per sostituirvi allo Stato? Tutti in galera e il solo posto che vi meritate”. Gli operai dopo un attimo di iniziale smarrimento, si sentirono un poco più sicuri, in quanto erano di qua della barricata che offriva loro un po’ di riparo ed eventuale tempo per scappare. Cominciarono così a lanciare pietre, bottiglie, pezzi di san pietrini che strappavano con i loro picconi dalla strada, il mestiere in questo caso aiuta e dà più tempo per organizzare una ritirata. Ma le forze dell’ordine si moltiplicavano ed erano più esperti di loro nel giocare alla guerra, pochi secondi e la strada si riempì di lacrimogeni che sparavano al di là della barricata, uno finì sul cassone del moto Guzzi e a mio padre sembrò ustionargli la pelle. Fortuna che in quei giorni si era creato in città uno spirito di cameratismo che non si era mai visto prima e i cittadini vedendo che stavano attaccando e minacciando altri reggini, scesero numerosi dalle loro case. Un attimo e una folla gli venne in soccorso, gridando ad una voce “viva Reggio” “se tocchi uno, tocchi tutti noi” “fratelli insieme contro lo strapotere di Roma” “liberiamo Reggio riprendiamoci la nostra libertà” . Una marea di gente che gridava, correva saltava , lanciava pietre e quello che trovava, c’era una donna che piangeva colpita di striscio da un razzo, o chissà cosa, che bruciava qualche metro più in là, ma tutto questo servì a frenare le milizie che si erano attestate pochi metri oltre la barricata e in assetto difensivo, coperti da caschi e scudi, aspettavano ordini che per fortuna tardavano ad arrivare.
Questo servì a mio padre per riorganizzare un po’ i pensieri, prima cosa da fare era andarsene da li, salvare il motocarro. Cercò di metterlo in moto agendo diverse volte sulla leva senza riuscirci per la grande agitazione, poi, quando senti la marmitta scoppiettare, ringraziò il cielo e in tutta fretta cercò di guadagnare strade libere dalla calca per tornare al sicuro dentro casa. Ma quando stava per passare il ponte di Sant’Anna vide alcune camionette dei carabinieri che stavano allestendo un posto di blocco. Non aveva nulla da temere, era un operaio in cerca di lavoro, niente che lo potesse collegare con i disordini della mattinata, ma la paura lo portò a cambiare strada e questo insospettì il brigadiere che avendo visto da lontano il repentino cambiamento, mando una jeep a controllare che cosa ci facesse a quell’ora un motocarro in giro per le strade in quelle giornate in cui nessuno lavorava. Mio padre fece finta di non accorgersi che una pattuglia lo inseguiva e continuava a guidare cambiando spesso direzione nei meandri delle viuzze del rione Marconi. Ma la jeep procedeva ad una velocità almeno doppia di quella del motocarro e poi, piantato proprio al centro della strada davanti a lui, si materializzò un carro armato che riempiva tutta la carreggiata e impediva ogni via di fuga. Con la jeep dietro il cassone e il cannone di un carro armato puntato in faccia, mio padre non seppe fare altro che scendere dal motocarro con le gambe che gli tremavano e le mani alzate. Non riusciva neanche a pronunciare una parola quando gli chiesero i documenti e perché stava lì e perché soprattutto aveva provato a scappare. Lo perquisirono e stavano per portarlo in caserma per ulteriori chiarimenti, quando sbucò dall’angolo opposto della stradina il canonico don Lillo Altomonte con la sua bicicletta pesante e la nera tonaca aperta sul davanti che volava appoggiandosi al copertone della ruota posteriore pulendolo ad ogni pedalata dalla polvere stradale. Si accosta ai presenti e si mette a gridare : “Animale! Dov’eri finito. Mi hai lasciato un’ora ad aspettarti. Bestia che non hai rispetto neppure per chi ti ha impartito il Battesimo. Ma mi sa che i Sacramenti non prendono sugli animali della tua specie. Il Signore perdoni il mio peccato di avere buttato le perle ai porci.” “Brigadiere, a voi vi ha risposto la bestia? …Lo sapevo che non parla, il demente. Perdonatelo è affetto di una malattia che l’ha preso bambino… e pensare che al catechismo era uno dei più bravi … lasciava sperare a un futuro migliore… e poi la meningite, febbre alta e cefalea… per fortuna ero passato a benedire la casa … sua madre una bonacciona che niente capiva … sapeva per miracolo farsi la croce con la mano destra… diceva che era debolezza e sarebbe passata… ho sudato per convincerla a portarlo in ospedale… e fu così che gli salvai la vita. Quasi me ne pento perché a che gli è servito? Con la meningite non si scherza dicevano gli antichi: <o si muore … o si resta scemi> … e lui non è morto, ed ecco il risultato. Stamattina gli avevo dato appuntamento dal Vescovo per spostare la campana che si deve portare dal fabbro a saldare, l’hanno smontata e sono tutti ancora la ad aspettare la bestia con il suo motocarro e pensare che anche sua Eccellenza lo attende e non sapevo più come giustificare il suo ritardo. Se permettete lo prendo in consegna io e poi lo riporto a casa a calci perché in fondo non è cattivo il bestione è solo cretino non sa fare del male a una mosca.” I soldati e pure il brigadiere non fecero obiezioni, quasi lieti di non perdere il proprio tempo dietro un terrone ignorante che presentava segni di squilibrio mentale. Il parroco dopo aver caricato la sua bicicletta sul cassone si sedette accanto a mio padre che partì come un automa ancora incapace di parlare, ma appena spariti alla vista dei militari gli prese le mani e le baciò dicendogli: “Padre mi avete salvato, disponete di me per il resto dei miei giorni”. “Portimi a casa… che è ura ra Missa. E si mi voi ringraziari ndi virimu tutti i duminichi avanti all’altari… e settiti avanti chi t’haiu a cuntrullari si veni e … in futuru … non fari chiù cazzati”. “Nu santu ndo Lillo” mi diceva mio padre fino a quando ormai vecchio veniva al Cimitero a trovarlo e portargli un bel fiore.
Capitolo 4
Cresceva Franchino sempre in mezzo alla strada. Oggi dire che un bambino cresce per strada è come usare un dispregiativo, quasi a voler sottolineare che il bambino non ha una famiglia, qualcuno che lo accudisca si prenda cura di lui. In un certo senso Franchino non aveva “una famiglia” o meglio, una sola famiglia, ma tutto il vicinato era la sua “allargata” famiglia.
Tra i primi ricordi mi vedo a esplorare il paese, affidato ad una guida ormai esperta: Paolino, tre anni più grande di me. Ne poteva avere forse sei, quando mi prendeva per mano, per difendermi o per farsi coraggio e partire e portare a termine la nostra consegna senza fare possibilmente alcun danno. Oggi i bambini, fino a 12 anni, non si mandano da soli, per legge, e anche se abito a 100 metri dall’edificio scolastico, non mi passa per la testa il pensiero di mandare mio figlio da solo a scuola, anche se ormai di anni ne ha dieci, e all’uscita come tutti i bambini, non può rientrare a casa se non accompagnato da un genitore che viene a prelevarlo sul portone d’ingresso, altrimenti deve rimanere con il bidello fin quando il genitore ritardatario si presenterà davanti al portone carico di scuse e vergogna per aver lasciato la creatura da solo in un universo spietato e crudele dove proliferano draghi che neanche nell’Apocalisse di San Giovanni, pronti a carpire bambini e portarli chissà dove. A quei tempi invece i bambini erano “spinti” fuori di casa a imparare a cavarsela da soli, senza che i genitori gli stessero sempre con il fiato sul collo. Bisogna pure dire, a discolpa dei genitori moderni, pur sempre apprensivi, che negli anni 70-80 la vita era molto diversa. Il paese era scarsamente popolato, era edificata solo la striscia che lambiva la strada principale, un’unica arteria piena di buche e illuminata dalla fioca luce delle antiche lampadine a incandescenza, attaccate ad un palo di legno, di quelle che dentro al bulbo di vetro avevano dei filamenti che attraversati dalla corrente elettrica, illuminavano, se così si può dire, la strada. Fortuna che all’epoca passavano pochissime macchine, soprattutto di notte, e quelle poche avevano le marmitte talmente rumorose che ti avvisavano del loro arrivo con largo anticipo tanto da consentirti di metterti in salvo sui muretti a ridosso della strada che noi usavamo per panchine. “…E meno male!” in quanto con quella poca luce, l’autista non poteva mica vederti, e anche se le macchine all’epoca andavano troppo piano per metterti sotto, comunque era meglio non rischiare.
La prima consegna che noi sbrigavamo, io e Paolino, in quanto ognuno in famiglia piccolo o vecchio aveva un compito e lo doveva eseguire per il bene di tutti, era quella di andare a prendere il latte. A San Sperato negli anni 70 non c’erano i supermercati ma soltanto due botteghe in cui si potevano acquistare solo viveri di prima necessità. Mia madre ci vestiva con pantaloncini alle ginocchia e calzettoni bianchi sopra i quali si indossavano sandali con sopra strisce di cuoio o il più delle volte semplici infradito di un materiale talmente scadente che in un giorno si staccava il perno di sotto e per non prendere botte lo si sostituiva con un chiodo passante che faceva da fermo, poi ci dava in consegna la bottiglia di vetro vuota e ci mandava con un incoraggiamento: “State attenti, camminate muru muru.” E noi tutti compìti, stretta in mano la bottiglia come un’arma, o una bomba che poteva scoppiare al solo sfuggirci di mano, camminavamo muru muru e arrivavamo a casa del lattaio. Entravamo in una anticamera con in una parete due scaffali di legno della stessa grandezza: in uno dovevamo lasciare la bottiglia vuota, nell’altro ritirare quella piena di uguale fattezza e dimensione. La mucca vera in carne ed ossa, a dire il vero, non l’abbiamo vista mai perché alloggiava poco distante in giardino sul retro della casa, ma una volta l’abbiamo sentita muggire. …E questo era il nostro supermercato, reparto latticini .
Ho detto bene prima che Franchino aveva per famiglia tutto il vicinato perché era regola per lui e per tutti i bambini che abitavano nel suo quartiere che se gli capitava di trovarsi ad esempio, dal suo amico Eugenio e si faceva sera, la mamma di Eugenio apparecchiava cena anche per lui e mangiava, viceversa se Eugenio verso le tredici si trovava con la sua bicicletta a giocare con Franchino nelle vicinanze di casa sua si fermava a pranzare da Franco. All’epoca non c’erano i telefonini e neppure tanti telefoni fissi attaccati alle pareti in corridoio, se Franco non rientrava non c’era da preoccuparsi in quanto era uscito con Eugenio ed era con lui, sicuramente sua mamma avrebbe accudito con cura entrambi. Oggi se ritardiamo 10 minuti per arrivare dall’ufficio a casa, chi non ci vede arrivare immagina ci possa essere accaduto qualsiasi cosa e fa squillare il telefono in continuazione e partono mille domande: “ … e dove sei finito?”, “Che fine hai fatto?” “Si è rotta la macchina?” “Ti è scoppiato il motore?” “Ti ha colpito un asteroide o ti hanno rapito gli alieni?” Si arrivano a fare le congetture più strane.
Maledetta tecnologia! Era così bello alla fine degli anni 70 quando neanche il 10% della famiglie di San Sperato possedevano un telefono fisso a casa. Ricordo che quella di mia zia era una delle poche fortunate a possederne uno. Era di colore grigio e per telefonare dovevi ficcare un dito nel disco dove erano scritti i numeri e farlo ruotare fino al finecorsa e poi mollarlo nuovamente per andare al numero successivo. Chi soffriva di artrite non poteva chiamare.
Una persona usciva di casa, partiva per un viaggio, e ci si vedeva tra un giorno, tra un mese, tra un anno o quando tornava. Si sapeva che era andato e non si preoccupava nessuno. Ci vediamo quando torni, se torni, se no pace e bene. Ricordo che tutti i giovanotti che partivano per militare davano appuntamento telefonico alle loro madri, per un giorno ed un’ora stabilita di volta in volta, al telefono fisso appoggiato al buffet nel soggiorno di zia Tita, e stava alla velocità di noi bambini il far risparmiare gettoni telefonici al figlio di madre smemorata che aveva scordato l’appuntamento e ci costringeva a correre a chiamarla e a fare in fretta perché ogni 20 secondi scattava un gettone.
Ma torniamo a Franceschino e ai suoi amici dicevamo che erano sempre in giro, ma era una libertà vigilata. Dovevano stare sempre attenti perché circondati da un esercito di secondini e guardie carcerarie che vigilavano sul loro comportamento. Se Franco o qualche suo amico combinavano qualche “cazzata” la comare che si trovava più vicina all’evento li ammazzava di botte e se anche dopo diversi giorni le mamme si incontravano e parlavano dell’accaduto, la mamma del condannato per non rimanere indietro lo menava di nuovo, per essere stato uno scostumato, per avere provocato la reazione della comare : “vai a chiederle scusa, non farmi vergognare di essere mio figlio” … e giù botte .
Oggi se vedi un bambino che cerca di arrampicarsi su un palo sormontato dai fili dell’alta tensione, girati dall”altra parte, fai finta di non vedere, passa dritto, non lo richiamare e soprattutto non toccarlo con le tue mani, potresti slogargli il braccino nel tentativo di salvargli la vita, o potresti causare uno shock al suo delicato sistema nervoso, tutte cose che potrebbero costarti una denuncia, portarti davanti ad un giudice in tribunale, cause che si protrarranno per anni e soldi buttati a via di avvocati . Nel migliore dei casi potresti incorrere nelle ire inconcepibili del suo suscettibile padre, che per farla breve ti prende a legnate così non spaventi più il figlio innocente. In un attimo pensi a tutte queste cose e ti passano le conseguenze per la testa. Ma se sei nato negli anni 70 avrai una coscienza e la sentirai gridarti: “sei pazzo… che fai? … non puoi lasciarlo così a farsi male… intervieni … veloce … ha bisogno d’aiuto” Poi rifletti, conti fino a dieci, e decidi, gridando più forte alla voce che è dentro di te per farti sentire e farla almeno una volta tacere: “ … e si Franco, va bene che sei nato negli anni settanta, ma sei un cittadino del mondo cresciuto nel 2020… e sai finalmente cosa dire al moccioso : “Va mmazziti sulu!”
Reggio Calabria 3 maggio 2020 domani finisce la quarantena forse è meglio che mi fermi qui. A dopo.
Franco Fazzino