La fragilità umana de “L’ebreo” tocca i cuori di Reggio

di Grazia Candido (foto Antonio Sollazzo) – In un salotto i cui mobili sono all’inizio coperti da un lenzuolo bianco dove la penombra spesso si impone sulla luce, si snoda una storia passata ma sempre attuale, che rinnova la consapevolezza che chi é legato ai soldi, al potere vende per sempre la sua anima.
“L’ebreo” commedia andata in scena ieri sera al teatro “Francesco Cilea”, evento inserito nella rassegna artistica della Polis Cultura che registra un altro meritato successo, testo di Gianni Clemente per la regia di Pierluigi Iorio, è una tessitura coinvolgente ambientata nel 1956 a Roma. Il tutto ruota intorno ai coniugi Consalvi, accumulatori di proprietà che, da una ricchezza conquistata fortuitamente, hanno tratto agi e un riscatto sociale.

Immacolata sempre vestita di tutto punto, donna avida e spietata (magneticamente interpretata da Nancy Brilli) tiene il potere della propria ricchezza e comanda il marito Marcello (impeccabile Fabio Bussotti), un commesso diventato padrone che però, non ha dimenticato le sue vere origini.
Mentre Immacolata ostenta ricchezza, il marito resta una persona umile perché sa che tutto quel benessere lo ha solo per fortuna e che non è frutto delle sue fatiche.

Il vero proprietario di tutta la loro “roba” è infatti il padrone ebreo catturato e deportato in Germania. Immacolata che gestisce gli affari, lo sa bene ma giustifica questa triste vicenda con la perentoria frase: “Prestava i soldi a strozzo”. La paura di perdere ogni bene per il ritorno del Padrone, ormai considerato morto, spingerà Immacolata a coinvolgere il marito a macchiarsi di orribili reati, trascinando entrambi in un’escalation di violenza senza via d’uscita.

Per quasi due ore, si alternano momenti di leggerezza ad altri di intensa drammaticità e, minuto dopo minuto, cresce la tensione per l’eventualità che il legittimo proprietario, l’ebreo, possa tornare a reclamare la sua casa. L’interpretazione di Nancy Brilli che incastona alla recitazione in prosa il dialetto romano, cattura il pubblico investito da una crescente oppressione che avvolge tutti i protagonisti. Bravissimi i tre interpreti (divertente Claudio Mazzenga, amico di infanzia dei coniugi che segue i ritmi ben calibrati e rapidi della storia) che riescono a coprire, in un solo atto, tutti gli spazi scenici e soprattutto, a far capire che spesso la povertà non la si trova nelle tasche delle persone, ma nelle loro anime. Il finale infatti, vede i protagonisti bloccati nel limbo della rassegnazione dell’incertezza, barricati in quella casa lussuosa con le imposte serrate e  senza luce. Tra il terrore di dover perdere tutto e la cattiveria consumata nella sua forma peggiore, i coniugi Consalvi consegnano al pubblico un dipinto dell’essere umano che si dimostra sempre il peggior nemico di sé stesso e che davanti ai soldi dimentica chi è realmente uccidendo per sempre la sua essenza.