La storia del fossile di balena rinvenuto ad Ortì – di Biagio D’Agostino

 

 

 

 

Nell’Aprile del 1993, il giovane Filippo Sorgonà Furfari, che nel Giugno successivo avrebbe sostenuto gli esami di maturità scientifica, aveva deciso di fare una passeggiata sulle colline che sovrastano il paese, approfittando di una schiarita dopo qualche giorno di intense precipitazioni.
Quando che fu giunto nell’acrocoro di Monte Chiarello, precisamente dopo aver costeggiato la località Monachelle e aver incrociato il bivio che porta a Marazzi, la sua attenzione fu richiamata da un qualcosa che spuntava da un piccolo costone di arenile, dall’impasto di sabbia e terra che le abbondanti piogge dei giorni precedenti, avevano parzialmente corroso e fatto emergere.
Aveva tutta l’aria di essere un fossile, anche a cagione del suo colore rosso e, quindi prestò la più grande attenzione nel maneggiare quel reperto.
Il suo professore di scienze, Prof. Renato Crucitti, geografo e naturalista, aveva incoraggiato la ricerca da parte dei suoi studenti dell’osservazione dei siti naturali, quale fonte di studi e di applicazione pratica di quanto appreso sui libri, specie in materia di geologia e archeologia.
Per cui il giovane Filippo, classificò quello strano reperto come possibile elemento paleontologico. Allertò il suo Professore e, insieme, il giorno dopo si recarono sul sito, cominciando da subito l’opera di scavo. Da quel sedimento sabbioso emersero delle ossa riconducibili a qualche creatura dalle dimensioni enormi che lì aveva trovato la morte. E vennero alla luce anche altri interessanti reperti, quali denti di antichi predatori selacei (antenati dei moderni squali) appartenenti a più specie.
Il Professor Crucitti, che aveva fatto la sua tesi di laurea proprio sugli studi relativi alla presenza di reperti archeologici nelle zone collinari della nostra città, fu in grado di stabilire che quei resti appartenevano presumibilmente a un grosso cetaceo risalente all’era del pliocene datata tra 3 e 4 milioni di anni fa. Una scoperta sensazionale, sia per la misurazione del reperto, oltre 12 metri lineari, sia la percentuale di rinvenimento dell’esoscheletro (poco meno del 50% complessivo), sia per unicità della specie nelle nostre zone mediterranee.
Venne prontamente informata la competente autorità museale nella persona della soprintendente Dott.ssa Lattanzi e anche la Dott.ssa Bonfiglio dell’Università di Messina, dove l’esoscheletro fu successivamente allocato, mancando al Museo Nazionale di Reggio una sezione paleontologica e a quello di Bova mancando gli spazi necessari.
Da una accurata ricostruzione, operata da esperti del settore, archeologi, paleontologi, zoologi, l’animale in oggetto, un grosso cetaceo, sembrerebbe così ben conservato e fossilizzato a cagione di particolari condizioni, la prima delle quali sembra essere la caratteristica del luogo che, al tempo dei fatti, parrebbe assumere le fattezze di una spiaggia di un mare poco profondo che ha favorito una sorta di adagiamento, e in presenza di moto ondoso scarso che ne ha preservato l’integrità.
Filippo Sorgonà si è sempre battuto perché il ritrovamento abbia la corretta narrazione e che questa vicenda possa concludersi con il ritorno del reperto nelle nostre zone. Magari riuscendo a creare un polo culturale paleontologico e una struttura idonea ad accogliere e conservare la balena nei luoghi che l’hanno protetta per milioni di anni.
Biagio D’Agostino