Detti e proverbi calabresi liberamente narrati da Angelo Latella
La traduzione sarebbe: “Poveretto (maru, da “amaro”, amarezza, per una triste e inevitabilmente sorte) chi muore: chi campa si organizza, si realizza, chi muore si disfa (si consuma, si “spaci”, ossia si sbriciola come il cibo troppo cotto)”.
Proverbio simile? ” ‘U mortu è mortu, pinsamu ‘o vivu”, anche se si discosta per schiattezza di sintesi e per una forma celata di “consolazione”.
Chi muore comunque è considerato “maru, poveretto”, perché finisce un percorso (terreno, per chi crede) che molti vorrebbero non finisse mai.
Il “chi rimane, chi campa” si organizza , è presumibile sia riferito ai parenti del defunto, come a voler rimarcare che solo alla morte non c’è rimedio, per il resto tutto è fattibile (si faci).
Molti elaborano e associano, arbitrariamente, anche un “maru cu resta”, affiancando l’amarezza e il dolore per la perdita del congiunto, alla fine di un congruo sostegno (patriarcale, morale o economico) che non ci sarà più.
È ovvio che il dolore trova margini di sollievo se una eventuale eredità potrebbe attenuare problemi economici. Rimane il fatto che la sofferenza è soggettiva, come l’amore d’altronde: si ama come si sa, si soffre come si sa.
E per concludere, rispolveriamo il pensiero che ci riporta al perché si piange ad un funerale: “l’eredità più grande che un genitore può lasciare a un figlio è la memoria del suo amore. Il resto non avrà alcun valore”.