Detti e proverbi calabresi liberamente narrati… da Angelo Latella
La traduzione sarebbe, più o meno: “frequenta quelli migliori di te, pure a rimetterci (farne le spese)”.
Proverbio molto filosofico oggi. Partiamo dal fatto che comunque nasce in epoca di povertà economica, sociale, culturale.
Era (è) un invito a non frequentare cattive compagnie, per sottolineare che tante volte, le cattive compagnie sono più facilmente raggiungibili e danno l’illusione di un falso “stare bene”, magari anche da protagonisti , e soprattutto senza alcun costo (apparente).
Ma a frequentare cattive compagnie si rischia parecchio, si aprono strade all’alcol, alle droghe, al delinquere e di conseguenza al disagio sociale e alla galera.
Quali i vantaggi allora delle buone compagnie? Non sono molti ma anche uno solo è già indice di “convenienza”, perché il proverbio parla di frequentazione non di amicizia.
Gli avi intendevano sottolineare l’importanza dell’apprendere “cose” buone e utili; frequentare ambienti sani era già un modo per “vedere, copiare, ripetere, imparare”… atteggiamenti, comportamenti, mestieri, conoscenze altolocate, e altre mille vicessitudini.
Ricordiamo che l’analfabetismo era comunque diffuso e molti saperi si tramandavano per sentito dire o per presa visione (forme classiche di apprendistato, o portaborse).
Certo, frequentare gente e ambienti di qualità, poteva avere anche dei costi, un esempio? “Cumpari ndu pigghiamu un café, pavu ieu ! Cumpari fumati? Cca n’ce a sigaretta! Cumpari vindignati? Vegnu e vi jutu ! “. Rientrerebbe tra le spese “morali”, quindi non materiali, anche un rimprovero, un richiamo severo.
Se analizzassimo il proverbio ai tempi nostri, quelli d’oggi per intenderci, la conclusione sapete quale sarebbe? E cu sunnu chiddi megghiu i mia? Della serie “io non ho bisogno di nessuno, nascia ‘mparatu”.
Buona giornata.