La narrazione è veloce, si incastona tutto perfettamente come a comporre un puzzle in cui ogni pezzo esalta un vero capolavoro della letteratura. La bravura dei protagonisti Moni Ovadia e Giulio Corso sta nell’aver rimesso al suo posto il potere evocativo delle parole e ne è un esempio proprio Ismael, personaggio al quale è affidata la narrazione del romanzo. Sentimenti contrastanti, vendetta, odio, quel velo di follia che destabilizza l’essere umano avvolge una storia complessa e ricca di richiami filosofici e teologici. E, attraverso la metafora della Balena Bianca inseguita dall’irreprensibile Capitano Achab, si indaga su quel “sé umano” col quale tutti abbiamo a che fare. Proprio nel combattimento finale che vede scontrarsi Achab e la Balena Bianca, avviene la disfatta di entrambi vittime di un sentimento così forte come l’odio dal quale difficilmente si sopravvive.
Gli applausi gratificano il buon lavoro portato in scena da un cast eccellente, il cui messaggio risulta ancora oggi sempre attuale: l’uomo al centro di tutto e il suo difficile rapporto con la libertà dell’essere. Una libertà che se da un lato ci inebria, dall’altro ci impaurisce perché si pensa di non essere adeguati al contesto, alla società, all’idea di non apparire come gli altri ci vorrebbero. Angosce che rischiano di far consegnare la propria libertà nelle mani di qualcun altro perdendo così la propria essenza. A distanza di tanto tempo, “Moby Dick” continua a spronare l’uomo ad esplorare tutti i cambi di rotta che la vita gli presenta e anche se difficili, inaspettati, travolgenti, occorre affrontarli e goderseli senza se e senza ma.