Avrebbe, di sicuro, usato questo titolo il compianto Nicola Giunta per intervenire nel dibattito che, in questi giorni, intrattiene l’opinione pubblica: il restyling di piazza De Nava.
Un progetto commissionato, ideato e finanziato dal “Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo” attraverso il Segretariato regionale dell’apposita Sovrintendenza.
Da un’attenta visione degli interventi previsti se ne evincono chiaramente gli obiettivi: sia di carattere urbanistico che culturale.
Il Museo Archeologico, finalmente, si collocherebbe in un contesto armonizzato che ne valorizzerebbe la fruizione conferendo allo stesso la dovuta autorevolezza, visibilità ed importanza.
La pedonalizzazione e la riqualificazione dell’area antistante (nonché di quella adiacente alla stele in onore di Corrado Alvaro) appaiono scelte logiche, gradevoli e di adeguamento funzionale ai flussi di migliaia di visitatori che annualmente si recano presso uno dei più importanti Musei del Sud Italia e di tutto il Paese; “degno”, ricordiamolo, anche a livello mondiale.
Flussi che non erano né previsti né prevedibili nel progetto originario.
Palazzo Piacentini verrebbe finalmente sottratto ad un isolamento che lo vuole, negli ultimi decenni, come “casualmente” posto lì; senza alcun elemento di richiamo esterno che faccia da cucitura al tessuto urbano; la sua chiusura verso il lato a mare lo ha condannato da troppo tempo alla penombra oscurandone il suo oggettivo pregio.
La stessa piazza de Nava sembra non appartenere né al Corso né alle vie che la inglobano; il suo impianto (di inizio secolo scorso) presenta molte criticità rispetto ad uno scenario che detta bisogni radicalmente diversi: a partire dalla sua fruibilità.
Il nuovo progetto (che non prevede assolutamente ed in alcun modo interventi di “restauro” del complesso della statua, a firma di Jerace, e della vasca annessa) crea finalmente organicità e coerenza tra Museo, Piazza ed area “Corrado Alvaro”; si crea una ri-cucitura non solo tra questi spazi ma anche tra essi ed il Lungomare.
Il Museo, infatti, non può mantenere un’esistenza dissociata rispetto alla via marina che, con il completamento del waterfront, si propone di diventare una delle più affascinanti ed interessanti “passeggiate” dell’intero Paese: paesaggio, patrimonio botanico, archeologia ed arte in un’unica soluzione di continuità percettiva.
Continuità ed omogeneità che assolvono anche ad esigenze funzionali; per una fruizione, ripetiamo, che annulli barriere fisiche, visive e culturali.
Appare chiaro, tuttavia, che per queste ultime (le “culturali”) serva anche a Reggio un archistar; le resistenze ad un cambiamento naturale che non stravolge alcunché di “storico” hanno acquisito una dimensione grottesca.
Si continua a confondere (volutamente?) l’opinione pubblica con espressioni, termini ed affermazioni ad effetto che non hanno alcuna coerenza alla realtà: “Piazza De Nava è la nostra Piazza Navona”; “si sta stravolgendo la storia”; “stanno distruggendo un pezzo di città” ecc…
Qualsiasi persona di buon senso si rende conto che non solo il paragone a Piazza Navona è abissalmente improprio (per mille motivi) ma è anche del tutto inopportuno; fa simpaticamente ridere nella sua ridondanza.
Retorica e ridondanza che si palesano ancora di più nell’insistere, ostinatamente, a far passare un “restyling” per un “restauro” quando, fattivamente, l’intervento è del tutto diverso da un punto di vista tecnico; d’altronde, ripetiamo, non è previsto alcun tipo di stravolgimento o trasformazione della statua di “de Nava” e della fontana (unici elementi di valore storico-artistico).
O vorrebbero farci pensare che le mattonelle in vero cemento prefabbricato (utilizzate a migliaia sui nostri marciapiedi) siano state, ad insaputa di tutti, inserite in qualche elenco di beni culturali?
In sostanza: di cosa si sta parlando, ingannando la popolazione, quando si affermano cose così oggettivamente assurde? Quale “storia” si sta annullando, modificando o distruggendo?
Ironia a parte fa bene ricordare, d’altronde, che lo stesso de Nava rinnovò, stravolgendolo, il vecchio impianto pre-terremoto di Reggio; tutto è stato tranne che un conservatore.
Quindi, ad avviso di qualcuno, l’Architettura dovrebbe forse mantenere immutati gli scenari (anche quelli effimeri e non sostanziabili in bene culturale di pregio) per soddisfare le reticenze conservatrici di Chi è terrorizzato dal cambiamento?
Dovremmo forse azzerare, quasi per intero, la nostra facoltà di Architettura in quanto svolgerebbe inutili attività di ricerca volte a trasformare il rapporto dell’abitare la Natura, da parte dell’uomo, in ogni sua declinazione?
Stiamo dicendo a migliaia di studenti e di laureandi di architettura che si stanno impegnando per Niente?
Che immagine di provincialità imbarazzante trasferiamo all’intero Paese!?
Stiamo ostentando naftalina subculturale al di fuori di qualsivoglia ragionevole e qualificato confronto di partecipazione democratica alle scelte che trasformano la nostra città.
Il progetto nuovo può piacere o meno (questione di gusto) ma è al di fuori di ogni dubbio che risolve concretamente una conflittualità, ormai cristallizzata, del Museo con il suo contesto; con una città che, come sta dimostrando in alcune sue espressioni, gli fa la guerra piuttosto che accoglierlo.
Ragionevolmente si può produrre una riflessione condivisa su dettagli stilistici ma è chiaro che quella piazza, per come è, palesi a più livelli una inadeguatezza al vissuto quotidiano; parla una lingua diversa.
Non ci risulta esistere (in nessuno dei templi sacri europei dell’Arte, della Storia, della Cultura) un solo esempio di tale incredibile reticenza alla necessaria alchimia tra contemporaneità e conservazione.
Anzi è grazie proprio ai linguaggi contemporanei che tornano fruibili Opere destinate all’invisibilità; ormai deglutite da una storia che non è più.
L’abilità sta, verosimilmente, nel raggiungere e perseguire questo equilibrio e questa armonia: preservare rinnovando.
A questo principio facciamo appello; ad un intervento che, nel rispetto dell’identità, la vesta dei tempi nostri.